Io non ho quella malattia da radical chic.

“Io non ho quella malattia da radical chic!” si ripeteva Carla, dai capelli scompigliati e dalle camicie mai stirate. Non riusciva a convincersi del fatto che combatteva la superficialità nonostante faceva di essa il suo tutto. Aveva gran voglia di far vedere quanto era bella dentro: era consapevole della sua intelligenza, del suo interesse per la cultura fuori dal normale, soprattutto per i ragazzi della sua età. Odiava esser diversa, ma lo amava profondamente. Carla era una ragazza che la si amava o la si odiava. Non grigio, bianco o nero con lei. La sua attenzione per le parole e i suoi passi impacciati, il suo amore per i libri e il suo odio per le scarpe; non era molto femminile: piuttosto che urlarti in faccia dall’alto di un tacco 15, ti sferrava un calcio nel culo con i suoi anfibi da uomo. Una donna-bambina, lo sguardo da donna, le guance da bambina. Carla non era una ragazza particolarmente bella, ma era bella particolarmente. Aveva la bellezza di una persona che ne aveva vissute tante, di una che va sempre in giro con i guantoni da box, solo da lei visibili. Carla odiava tutti, ma quando amava lo faceva bene, con tutta se stessa. Amava bene, amava con la testa e non col cuore. Carla parlava con gli animali, li rispettava, dedicava gran parte della sua vita per loro. Era fottutamente cinica ma dolce. Era cinicamente dolce. “Aveva una buona parola per tutti” ma difendeva qualsiasi minoranza. Secondo la gente Carla era quella forte con cui parlare perché sapeva sempre come affrontare le cose, in realtà era solo una ragazzina con una malattia da viziata radical chic che pur di non mangiare si fece mangiare dagli stereotipi della società.

 

Non ho curato la forma volutamente, volevo rimanesse un testo semplice.

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